Una luce nuova taglia radente l’altopiano, ne tinge d’oro i contorni accendendo all’improvviso le chiome spoglie di alberi e cespugli: non è solo l’artificio di quell’ora in più donata al tempo degli uomini, è la forza del fuoco che scende dal cielo e vivifica, si scontra con le robuste brezze di settentrione, rivelando al tramonto il suo carattere incendiario tra i nembi che si assiepano intorno alle vette più alte.
Si accende un accenno di verde sulla steppa, qua e là punteggiata da mazzetti di crochi e viole calcarate, dai getti nuovi del veratro brillanti di verde profondo. Dal bosco, insistente il fischio monotono del picchio muratore; lontano, gli fanno eco i richiami delle prime upupa appena giunte dall’Africa.
Un tumulto silenzioso pervade ogni cosa: lo percepisci nel frusciare del vento sopra la faggeta, nell’abbaio potente del capriolo dal fondo della valle, nel volo concentrico della poiana sopra la radura, nello sfrecciare dei colombacci che veloci corrono a ripararsi nel folto del bosco.
A lungo atteso, il tempo dei risvegli è finalmente giunto. Dodici lunghi mesi, dodici segni danzanti nel cielo in un cerchio che non ha inizio né fine. Affinché ogni cosa torni sempre uguale a se stessa e pur sempre nuova.
Mentre l’ombra pigra della sera si allunga sulla radura, qualcuno ha deciso di uscire incontro a quest’aria nuova: la fiuta, ne segue il profumo tra ciuffi d’erba e di fiori, si ferma poi riparte. In fondo anche lui, in un modo che mai potremo sapere, gioisce intimamente nell’abbraccio di una nuova Primavera.