La presenza di almeno una coppia nidificante di aquila reale e dei suoi diversi siti di nidificazione ciclicamente frequentati sul territorio dei Monti Simbruini è di fatto cosa storica, tuttavia è solo dai nostri relativamente recenti avvistamenti che scocca la scintilla di tentare un approccio più sistematico e ragionato nei confronti di questa specie. Lo scopo è quello di provare a comprendere qualcosa in più sul suo legame con queste montagne ma anche, più semplicemente, quello di tornare quante più volte possibili ad emozionarsi osservando la sua maestosa sagoma volare nel cielo. Del resto l’aquila reale è una di quelle specie “sopra le righe” e non poteva che giungere anche per noi il momento di dedicare ad essa il giusto tempo. È così, dopo le prime osservazioni mirate con il cannocchiale dalle creste più panoramiche e dai fondovalle più impervi, che in breve tempo si apre uno dei capitolo più densi di emozioni ed al contempo di contrasti di tutto il nostro lungo peregrinare tra le pieghe di queste montagne. Già, perché osservare e fotografare le aquile è soprattutto cosa di grandi contrasti.
Un lungo e paziente studio porta lentamente i suoi frutti e così, pian piano, il cerchio si chiude. Nel tempo gli avvistamenti non diventano più solo frutto del caso, anzi, ne osserviamo – sempre da debita distanza – le operazioni di sistemazione del nido nel periodo che precede l’accoppiamento, godiamo della privilegiata vista dei funambolici voli a festone, fotografiamo lo scontro tra giganti con un grifone che troppo ha osato avvicinarsi al loro territorio, le ritroviamo in estate sui pendi sommitali delle vette più alte in cerca di prede. Il nostro legame con le due aquile si fa così giorno dopo giorno, mese dopo mese, sempre più forte e tangibile, tanto che la femmina della coppia diviene per noi affettuosamente Raffaella. Un rapporto diretto, quasi intimo, di quelli che possono instaurarsi solo avendo a che fare con animali così rarefatti sul territorio come sono appunto le aquile. Chiaramente parliamo di un rapporto tutt’altro che gratuito, reso possibile solo grazie ad una profonda dedizione, nutrita costantemente nel tempo dal fascino ammaliante ed ineluttabile di uno dei simboli per eccellenza dello spirito ancora selvaggio ed autentico di queste terre.
Nel nostro tempo delle aquile innumerevoli ed interminabili sono state le attese della loro comparsa, abbarbicati su improbabili e scomodi giacigli di roccia protesi sulle valli sottostanti, nascosti sotto ad un telo mimetico, immobili per ore nella morsa penetrante dei giorni più freddi dell’anno. Un gelo ogni volta apparentemente infinito, capace di tramutarsi a tratti in una vera sofferenza fisica, sciolto però puntualmente – a proposito di contrasti – dal fuoco che divampa alla vista improvvisa di un loro volo radente ad appena qualche decina di metri di distanza (il sibilo delle loro ali nell’aria risuona ancora nitido nella memoria). Attimi rari e preziosi, scanditi da un frastuono di emozioni ed immortalati, nella migliore delle ipotesi, in appena una manciata di buoni scatti. Poi tutto torna di nuovo com’era, nell’immobilità di un’altra indefinibile ed incerta attesa.
Ma al di là delle immagini faticosamente raccolte, ciò che di questa avvincente parentesi più di tutto resta indelebilmente impresso nel profondo del nostro animo è appunto questa estrema antitesi di emozioni. Un’antitesi che poi, in fondo, altro non è che l’esemplificazione più concreta e diretta di quanto sia complesso arrivare a sfiorare, anche solo per qualche secondo, un mondo, quello selvatico, in perenne moto parallelo con il nostro. Un esercizio a tratti quasi inestricabile, a volte – nei momenti di maggior difficoltà e frustrazione – apparentemente insensato, ma forse tra i pochi ancora capaci di condurci al cospetto della vera bellezza.
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