Si avverte nell’aria, già alla fine di Febbraio, che qualcosa lentamente sta mutando: una nota di dolcezza impercettibile nell’aria introduce un fermento nuovo, gli uccelli del bosco si fanno improvvisamente più attivi e vocali. Il canto dei merli accompagna le albe e i tramonti, le cince irrequiete si apostrofano da un ramo all’altro, poi sopraggiunge il flauteggiare invisibile del picchio dorsobianco tra i tronchi di faggio e la risata beffarda del picchio verde che sa di sole e di prati profumati.
Ma la sinfonia di primavera non è completa se non all’arrivo dei piccoli, grandi migratori: ogni anno è un’emozione ascoltare per la prima volta il canto lontano del cuculo o quello ipnotico dell’upupa: affascina pensare alla distanza che hanno percorso per giungere nuovamente qui, sulle praterie e nei boschi dei Simbruini. Di anno in anno li ritrovi sempre negli stessi posti, quasi come se ogni coppia avesse il suo posto, la sua casa delle vacanze qui sulle nostre montagne. Ma sono veramente sempre gli stessi esemplari o è una forma di saggezza innata della specie che ogni anno la riconduce qui? Quello che è importante è che questi visitatori a lungo attesi sono il vero inconfondibile segnale che una nuova stagione di vita è iniziata.
Tra tutti loro, il culbianco è forse la specie più familiare e più facile da avvistare sui grandi pianori calcarei: compagno di lunghe attese – nascosti in silenzio tra le erbe alte e i grandi cespugli di biancospino e rosa canina – piacevole distrazione nelle ore interminabili dei molli pomeriggi primaverili. Questo paesaggio carsico è il suo regno, creatura a metà tra l’aria e la terra, da cui sembra aver rubato le sue tinte pastello e da cui sembra non volersi mai allontanare troppo, coi suoi voli brevi e radenti.
Assiso su una sporgenza calcarea, un maschio impettito inonda i prati dorati del suo canto sottile e penetrante, riaffermando ancora una volta il potere della vita sulla terra risvegliata.