A valle l’ennesimo giorno di afa nel pieno dell’estate, in alto nuvole basse avvolgono la montagna. Più che mai sento forte il richiamo di tornare a trovare rifugio nel cuore della faggeta. Il motivo di questa intima necessità, anche stavolta, si fa da subito evidente non appena calco i primi passi tra le fitte chiome color smeraldo avvolte dai vapori: una rinnovata vitalità, altrove fiaccata dalla calura e dalle quotidiane vicissitudini, pervade il corpo e lo spirito rendendo tutto più leggero, proprio come l’aria che qui si respira. Non è però solo una questione di mera temperatura, passo dopo passo il senso di piena riconnessione con la natura in questo contesto torna a farsi sempre più palpabile man mano che mi avvicino a quel particolare angolo nascosto dove spesso amo tornare a perdermi in solitudine. Per fotografare. Per meditare.
Si tratta di un piccolo lembo di bosco fatto di antichi alberi, poche decine al massimo a dire il vero quelli più imponenti, ma vecchi di secoli e dalle forme così colossali e contorte da tradirne pienamente tutta la loro lunga ed affascinante storia. Ogni volta che giungo qui per me è come entrare in una sorta di santuario laico, i rami frastagliati e martoriati di quei giganti paiono come tante braccia di candelabri tese verso l’infinito, un inno alla resilienza della vita che dalla terra si innalza solenne verso il cielo. Al loro cospetto mi sento ogni volta in soggezione eppure pervaso di una profonda serenità, non posso quindi che perdermi, ancora una volta, ad ammirare quelle forme così possenti eppure al contempo anche fragili.
Rispetto alla mia ultima visita infatti non tardo a notare uno strano vuoto tra la sequenza di faggi, mi avvicino in quella direzione e vedo che ancora uno di loro, tra i più grandi e già da tempo senescente, è collassato a terra rompendosi in più parti. Chissà, a causa di qualche forte colpo di vento, o magari una saetta. È nel naturale ciclo di vita del bosco tutto ciò, lo so bene, eppure questa vista mi lascia come sempre con uno strano senso di tristezza; è come se a cadere fosse stato un mio caro o un vecchio e saggio amico. Presto i cicli vitali del bosco porteranno alla sua completa decomposizione da cui, si, nascerà nuova vita, ma che appunto faranno polvere del grande patriarca. E pian piano, con l’inesorabile scorrere del tempo, la stessa sorte sarà riservata anche a tutti gli altri antichi faggi tra i quali anche oggi mi aggiro in cerca di pace.
Tutto questo, essendo appunto nella natura delle cose, di per se non dovrebbe essere in alcun modo motivo di turbamento, se non fosse però che attorno il bosco di ceduo, figlio della ciclica e discutibile politica di “gestione” delle foreste, almeno per contesti di così estremo pregio naturalistico, avanza vigoroso germogliando verso la luce. I nuovi polloni di faggio guadagnano terreno a vista d’occhio, di stagione in stagione, rimpiazzando mano a mano i vecchi alberi, questi come guerrieri accerchiati e sopraffatti paiono sempre più stringersi tra loro per un’ultima disperata difesa ad oltranza. Polloni che tuttavia nel giro di appena qualche decennio, una volta divenuti alberi, con molta probabilità non appena saranno abbastanza appetibili verranno svenduti e tagliati, impedendogli di compiere in pieno il loro naturale ciclo vitale e quindi di arrivare a rimpiazzare nei secoli gli attuali patriarchi, i quali di fatto paiono essere inesorabilmente gli ultimi in tali fattezze se non si invertirà la rotta.
Passo con malinconia la mano sul tronco ruvido e fratturato del vecchio faggio caduto, come un ultimo saluto, e mi avvio a tornare indietro sui miei passi chiedendomi quante generazioni ancora potranno tornare a trovare rifugio in questo santuario. L’ultimo santuario.
Lascia un commento