Spinto dal ricordo di un inverno di tanti anni fa, avevo deciso di percorrere nuovamente quella pista che costeggiava forse la più estesa tra le aree della faggeta simbruina, al confine di tre comuni. Ricordi di passi sprofondati nella neve, lungo radure sempre più strette e misteriose e poi quei guaiti lontani a cui non avevo saputo dare un nome: tornare in un luogo dopo tanto tempo è spesso un’operazione ad alto rischio, specie quando il ricordo si fonde ormai con l’immaginazione e il confronto con l’attualità rischia di vanificarne ogni alone di mistero, nel confronto impietoso con la banalità del presente.
Ma stavolta la delusione dietro l’angolo era al di là di ogni ragionevole aspettativa. Quanto più la pista si inoltrava nella vallata, tanto più saliva un senso di immobilità, di inerte silenzio, non la classica quiete del pomeriggio autunnale, ma qualcosa di più sinistro e vuoto.
Appena la vista si era allargata sulla grande radura tutto era diventato chiaro: i segni inequivocabili dell’ennesimo, grande sbancamento di faggeta fra i tanti che avvengono senza particolare clamore su queste montagne. La pista si era presto trasformata in una sorta di fondo di fango e detriti, ferite di cingoli si diramavano verso tutte le direzioni, in lontananza i mezzi utilizzati lasciati in giro quasi indistinguibili da rottami, trattori, gru, camion, quasi precipitati lì da una dimensione estranea.
E poi a terra le lunghe file di tronchi esanimi, sfrondati e tagliati a misura, feriti a morte nelle cortecce, ormai più simili a pali della luce che ai gloriosi pilastri che un tempo reggevano la volta del bosco. Ogni volta scoprire un nuovo cimitero è un colpo al cuore. E’ legittimo, è sostenibile in questi luoghi? Sinceramente, non interessa molto né il parere della “scienza” né delle autorità, quello che resta di tante parole è solo morte e profanazione di quello che avrebbe dovuto essere un sancta sanctorum, qui nel cuore della montagna.
Uno sguardo a quei pali ormai senza vita, un tempo riparo di insetti, mammiferi e uccelli, e poi oltre senza volerne vedere di più. Una corsa quasi in apnea fin dove la montagna sembra tornare ad assumere il suo volto consueto, eppure tutto sembrava ancora più vuoto e sinistro. Non un canto di uccelli, non una traccia di vita ai margini del bosco, l’incantesimo era rotto e il ricordo destinato a trasmigrare nella dimensione del mito, la terra pura fatta della materia di cui sono fatti i sogni.
Il cielo si era chiuso in un plumbeo grigiore, un vento freddo e tagliente spirava a tratti, nervoso. Non c’era più nulla da vedere – hic sunt leones – era solo tempo di tornare.