Quelli appena trascorsi sono stati tra i giorni nei quali, da un po’ di anni oramai, più che in altri periodi si accalcano folle di persone in montagna, attratte da una delle tante mode dilagate di pari passo con il boom dei social media e della loro caratteristica di rendere qualsiasi cosa e qualsiasi luogo alla portata di tutti (un qualcosa di apparentemente positivo e gratuito, se non fosse per il costo “nascosto” del doversi poi sentire costantemente nell’obbligo di seguire le tendenze e quindi doverci essere a tutti i costi per non rimanerne tagliati fuori). Giorni che ora tutti chiamano con un nome quanto mai figlio del marketing, il periodo del “foliage“, ovvero quel breve momento, di solito della durata di una settimana, al massimo dieci giorni, in cui l’autunno dà il massimo sfoggio dei suoi caldi colori, con le chiome dei faggi che sfumano dall’ultimo verde al giallo, quindi dal ruggine all’amaranto. Un momento in cui sembra improvvisamente che tutti non possano fare a meno di una gita in montagna.
Frequentare (o anche solo transitare per poi proseguire oltre) i classici accessi alla montagna in questi giorni quasi disorienta e ferisce chi come noi è abituato a vedere durante l’intero corso dell’anno questi luoghi come solitari avamposti, porte d’ingresso verso mondi segreti ed ancora fortunatamente in buona parte selvaggi, lontani dalla confusione dei nostri tempi. Lunghe file di auto ferme a bordo strada anticipano gruppi di persone sparpagliati in ogni angolo intenti ad immortalare, quasi sempre fugacemente (e forse senza riuscirne ad apprezzare in pieno il senso) lo spettacolo dei faggi in veste autunnale, chiassosi gruppi guidati che si muovono quasi su tutti i sentieri, ristoranti presi d’assalto con doppi turni anche per un semplice piatto di fettuccine ai funghi. Scene spesso fuori luogo, che si addicono certamente meglio alle più affollate e rinomate riviere balneari o a qualche megaevento cittadino che non alle montagne dell’Appennino. O almeno, questa è la nostra concezione ed era anche la consuetudine fino a qualche anno fa, appunto prima che l’avvento dei social, drogati quasi sempre in maniera inappropriata ed inopportuna dagli stakeholder del territorio, imponesse alle masse di esserci anche qui, in ogni caso, anche solo per un selfie da taggare poi con l’hashtag #simbruinifoliage, diversamente sarebbe subito FOMO.
Con malinconica e profonda nostalgia rivengono alla mente le giornate di autunno dei primi anni 2000, in un contesto di assoluta solitudine, ci si apprestava ad iniziare proprio da questi stessi avamposti la scoperta in lungo ed in largo di questi territori. Momenti in cui la vera, struggente bellezza di queste montagne, affogate nel silenzio, nella quasi totale solitudine e nelle brume autunnali, ci si schiudeva palese alla vista ed al cuore, restandoci impressa indelebilmente come uno dei più autentici volti di queste montagne. Le calme ed ovattate atmosfere autunnali dovrebbero essere portatrici di riflessione ed introspezione ma questi aspetti, di cui il nostro essere ne ha più bisogno di quanto si possa superficialmente credere, difficilmente generano reddito e numeri, quindi meglio non pubblicizzarli troppo, piuttosto si trasforma di nuovo tutto, ancora una volta, in un ennesimo chiassoso ed attraente carosello.
Noi fortunatamente (e previdentemente) stavolta siamo solo di passaggio da qui, superiamo rapidi le vocianti folle armate di smartphone e bastoni da selfie e ci immergiamo su un labile sentiero che, perdendosi nella nebbia, ci conduce fino nel cuore più autentico e silente di questi grandiosi boschi, lì al riparo da tutto, dove ancora possiamo ritrovare quella malinconica e struggente bellezza che l’autunno sui Monti Simbruini ci aveva mostrato sin dal primo incontro. Una bellezza che c’era già prima dell’hashtag #simbruinifoliage.